La mentalità primitiva è l’opera più celebre di Lucien Lévy-Bruhl, in cui egli si impegna a definire la “mentalità primitiva” distinguendola da quella “civilizzata”. Quando viene pubblicata nel 1922, il suo interesse risiede soprattutto nella capacità di suscitare nei lettori il desiderio di superare il divario tra “loro” e “noi”, anche se questo divario è il presupposto del sistema coloniale. Ma oggi è possibile leggere quest’opera con una finalità diversa da una giustificazione ideologica della dominazione di una società su altre, basata sulla loro presunta “primitività”? In realtà Lévy-Bruhl, più che descrivere “come pensano gli indigeni”, parla del modo in cui agiscono sotto l’effetto di forze “impercettibili ai sensi eppure reali”. Egli si comporta non tanto come un filosofo di altri modi di pensare, quanto come un sociologo e antropologo, attento a descrivere la pluralità delle forme di vita sociale. Come spiegano gli incidenti della vita quotidiana le “società primitive”? Li attribuiscono a cause soprannaturali, intorno a cui si organizza tutta la vita sociale. L’enigma su cui verte l’indagine etnologica, dunque, non è tanto l’alterità del “primitivo”, quanto piuttosto l’interrogativo di un potere sociale che ci fa credere in forze invisibili come se fossero visibili.